Articolo a cura di Ivano Antonini-EnoCentrico
Il “titolo” dato a questa degustazione, organizzata nell’ambito del Merano Wine Festival 2011, potrebbe essere considerato altisonante, ambizioso e anche un po’ temerario. Ma basta lanciare un’occhiata alla lista delle bottiglie proposte, che si capisce presto che siamo davvero di fronte a dei vini tra i più longevi di Italia. Un percorso, quello che ci porta da un Gaja 2008 fino ad un Borgogno 1961, fatto di stili, uomini, annate e passioni. Ma soprattutto ci racconta quello che può esprimere un vitigno come il Nebbiolo.
Otto vini d’eccezione, per un giornalista d’eccezione. A guidare questa degustazione è stato chiamato Gian Luca Mazzella. Considerato, a ragione, tra i più esperti critici e scrittori del vino. Blogger su Il Fatto Quotidiano e per chi non lo conoscesse, consigliamo vivamente di partecipare ad una delle sue degustazioni.
Una degustazione importante, sostanziosa, da leccarsi i baffi. Da vivere tutta in un fiato, sul filo dei profumi e delle articolazioni gustative. E dove, per una volta (concedetemelo), la penna eviterà di trascrivere delle valutazioni in numeri. Che trovo totalmente fuori luogo in questa occasione.
Bicchiereeee!
Barbaresco Gaja 2008
L’inizio è di quelli con il botto. Anche se i per i fuochi d’artificio, bisogna aspettare un po’. A cominciare da questa bottiglia che a soli tre anni di distanza non gli abbiamo neanche dato il tempo di presentarsi e dargli modo di vestirsi a festa. Troppo giovane. Troppo pischello, se confrontato poi con i suoi compagni di merende di questo viaggio attraverso 50 di storia enologica di Langa. Ma c’era da aspettarselo, quando ci era stata presentata la lista dei “caterpillar” piemontesi di questa degustazione. Quindi, l’unico segreto per degustarlo e coglierlo nel modo giusto, rimane quello di resettare il sistema e approcciarsi con il giusto spirito e rispetto per l’etichetta “regina” di “Roi” Angelo. La grandezza del vino non si discute in alcun modo. La versione 2008 è il condensato classico dell’annata. Ottenuto da un “blend” di uve Nebbiolo provenienti dai 14 vigneti di proprietà della famiglia Gaja, nei comuni di Barbaresco e Treiso, le uve che sono state consegnate nelle mani di Guido Rivella, hanno dato come risultato un vino che, bottiglia più bottiglia meno, si attesta su una produzione di 50.000 esemplari. Il carattere non genera la grinta della 2006 o l’opulenza della 2007, ma si sviluppa su toni più docili e per certi versi anche più facili nella lettura. Colore luminoso, un rubino di media intensità, che fa da preavviso ad un profilo olfattivo centrato su un frutto fragrante che vira leggermente su tonalità speziate più piccanti di quelle viste nella versione precedente. Preciso e cesellato, in classico stile Gaja, così come è ottima l’integrazione con il legno. In bocca, a bussare per prima, si presenta l’acidità, non di quelle crude o taglienti, ma precisa, netta. La trama tannica è setosa, minuta, di bella eleganza. Mentre il finale è godurioso, succoso e che avrà modo di crescere. Per vedere esplodere tutta la sua potenzialità, dicevamo, ci vorrà tempo. E noi siamo qui, felici e pronti ad aspettare…
Barbaresco Riserva Asili Az. Agr. Falletto di Bruno Giacosa 1996
La bottiglia più controversa e dibattuta della sessione. Un filo di delusione si celava sul volto dei presenti, i quali non si aspettavano un vino dai tratti così evoluti e di quelli che ti fanno dire: “tutto qui?”. La prima bottiglia ce la siamo fatti cambiare perché difettosa, ma la seconda, a mio modo di vedere, non rispecchiava il suo vero valore. Ho avuto la fortuna di degustarla altre volte questa etichetta rossa di Giacosa e tutte le volte mostrava un carattere più fresco e autorevole di questa. Quindi preferisco sospendere il giudizio, per rispetto del vino. E del Maestro.
Barolo Riserva Monfortino Giacomo Conterno 2002
Si è già scritto fiumi di inchiostro su questo vino. La 2002 è risaputa per essere stata un’annata con molte problematiche e la decisione di non uscire con il Cascina Francia, pareva avesse confermato queste teorie. Ma il mondo del vino, si sa, è strano e mai scontato. E molte volte riesce mettere a tacere ogni scetticismo. Anche quando vieni a sapere della decisione che Roberto Conterno sarebbe poi invece uscito con il Monfortino. Mica cotiche… Il risultato, ne abbiamo già scritto, è quello di un campione di raffinata eleganza, un’opera d’arte, un capolavoro. Uno di quei vini che ti prostri al suo capezzale e ringrazi Iddio per averti fatto un paladino di Dio Bacco, capace di emozionarti davanti a questa cotanta meraviglia. Il Monfortino 2002 è unico. Non possiamo paragonarlo con nessun vino al mondo e neanche con se stesso. A memoria, non mi sovviene nessuna annata che può essere messa a confronto. “Ma perché farlo poi? Per quale pro?” direste voi… Per nessun motivo, ma solo per il gusto per confrontarti con te stesso, con la tua memoria enologica di tutte le annate degustate e per confrontarti… tu e lui. Il bicchiere racconta di un frutto scolpito, chiaro, di grande cura. Di quelli che sprigionano complessità e freschezza balsamica. Già, quella balsamicità, così chiara e netta che ti portano dritto a Serralunga e che lo trovi poi nel tannino, incisivo, di grande fattura, ma altrettanto fine e con quel finale un po’ ferroso. Ma dietro a questa trama, ecco uscire una grandissima seta. Intrigante, minuta, succosa. Di quelle che ti inebriano. Di quelle che ti invogliano a bere.
Barolo Riserva Vecchie Viti dei Capalot e delle Brunate 1999 in magnum
Tra i vini più possenti e muscolosi tra i cru di Roberto Voerzio, questo peso massimo è ottenuto da un’unione di uve che provengono dalle vigne dei Capalot e delle Brunate Quest’ultimi raggiungeranno, tra qualche annetto, i sessant’anni di vita. Un vino che esprime la sintesi dello stile Voerzio, ovvero potenza ed eleganza. La potenza è nulla senza controllo, dicevano in uno spot anni fa… Infatti qui, il “battistrada dei pneumatici” è di quelli che lo rendono ben saldo e che non lo fanno appesantire. Anzi lo rendono brillante e scattante. Freschezza e bevibilità si sentono molto vicine a questo vino. Il frutto è di quelli inebrianti, intrigante e capace di mettere d’accordo chiunque. Magari anche il più perseverante dei fan dello stile tradizionalista. Già, perché in questo caso è il vino a raccontarsi, l’anima del vigneto, la personalità di un terroir, che si lega maestosamente al legno dove è stato affinato. Non una sbavatura, non un dettaglio fuori posto. Ma tanto, tanto, tanto carattere. E la grinta che nasce dalla stupenda annata di origine, ma che deriva soprattutto dalla mano del suo creatore. Ancora un Roberto a mettere la firma. Ma questa volta… di cognome… fa Voerzio.
Barolo Le Vigne Sandrone 2006 in magnum
Il “Le Vigne” è il veicolo più semplice ed immediato per farti incontrare e capire lo stile Sandrone. Ma questo veicolo è capace, in grandi annate come la 2006, di farti anche emozionare, anche se non è facile in una degustazione come questa. Un carattere più allegro, sbarazzino, a tratti spensierato, capace di farti comunque appassionare al Nebbiolo. Un profilo olfattivo in grado di coinvolgerti, di rapirti nella sua “dolcezza” del frutto, nel suo essere diretto ed articolato allo stesso tempo. Palato setoso e avvolgente, dove tannini e acidità, creano verticalità al tutto. E quella voglia di stupirti in maniera lineare, misurata e genuina. Con quelle stesse caratteristiche che si ritrovano poi, per chi lo conosce o lo conoscerà, nel “personaggio” Luciano Sandrone.
Barolo Riserva Monprivato Cà d’Morissio Mascarello Giuseppe e Figlio 1995 in magnum
A mio modo di vedere, il Cà d’Morissio, è stato il “campione” di giornata. Maestoso, nobile, imponente. Dove ogni aggettivo superlativo potrebbe risultare calzante e tremendamente adattato alla grandezza del vino. Altre volte mi sono trovato nella situazione di non “recepire” o non “cogliere” certe sottigliezze nello stile dei vini di Mauro Mascarello. Ma nel Ca’ d’Morissio, mai. Mai una delusione. Mai una cosa fuori posto. Anche a costo di entrarci dentro con la lente d’ingrandimento e vestirsi da Ispettore Clouseau, alla ricerca di una sbavatura, di un’impronta, di un difetto. Dicevamo prima… se Roberto Conterno è stato un grande nel proporre Monfortino nella 2002, a questo punto dobbiamo ricordare che a Mauro Mascarello, gli va riconosciuto, di aver fatto un’opera d’arte nell’altrettanto difficile annata 2003. Già, Monfortino e Ca’ d’Morissio, due vini talmente diversi, ma straordinariamente simili, quando si tratta di annoverarli nell’olimpo delle più grandi espressioni del vitigno Nebbiolo. Ma cos’ha di tanto particolare questo vino? Se è vero che il vino si fa ancora con l’uva… 🙂 la materia prima, quì, è di quelle importanti. Ottenuto da una selezione massale della varietà Michet, all’interno del Cru Monprivato nel comune di Castiglione Falletto. La storia dice che risale al ’62 la prima selezione del vigneto. Una seconda selezione la si ha avuta nel ’83 per essere terminata nell’ ’85. L’ingresso di Mauro in azienda è datato 1967, entrato a continuare una tradizione familiare senza compromessi, nella maniera più tradizionale possibile. Il suo metodo di lavoro è quello di NON intervenire nelle fasi di lavorazione in cantina. Chiaro, indubbio, semplice. Non c’è trucco, non c’è inganno. Nessuna alchimia tesa magari alla ricerca di aggiungere una qualsivoglia personalità durante il suo percorso di affinamento. Il risultato è unico. Ca’ d’Morissio è la sintesi del terroir quindi. E invitiamo chiunque è alla continua ricerca del significato di questo concetto, a buttarci il naso qui dentro. In questa 1995 dalla complessità infinita, valori olfattivi e gustativi, talmente nobili, che sembrano dipinti con precisione. Una precisione opposta a quella che si potrebbe incontrare nei “vinoni iperconcentati creati per palati yankees” (cit.) dove, nel Ca’ d’Morissio, la grandezza passa anche per la sontuosità della incisività della trama tannica e veicolata da un’acidità che porta l’articolazione a raggiungere vette infinite. E inarrivabile per chi pensa che “il miglior vino del mondo” può essere fatto anche in cantina.
Barolo Pio Cesare 1990 in magnum
Il più classico ed il più classicista dei vini proposti. Il Barolo di Pio Cesare riesce ad esprimere, in questa annata, i canoni di un grande Barolo, senza essere troppo esaltato o stigmatizzato. Vuole porsi così, in maniera robusta, energica, vigorosa. Ma anche lineare, sottile e di facile lettura. Aperto come non mai, il ventaglio aromatico offre una cadenza capace di stratificare frutto, floreale e spezie con estrema semplicità, senza essere mai banale. Un palato che si mostra grintoso ad accompagnare un attacco fatto da un tannino mordente e generoso, ma felicemente integrato. Anche l’acidità si allinea impettita e risoluta come un soldatino, per andare ad accentuare quelli che sono gli spigoli gustativi, ma presto si viene rapiti da un vortice di calore che ti appaga nelle sensazioni di morbidezza e soavità. Se fosse un film, sarebbe Ben-Hur. Un classico.
Barolo Riserva Borgogno 1961
Curioso come il più “vecchio” dei vini proposti, sia stato presentato dal più giovane dei produttori presenti. Andrea Farinetti, classe 1990 e figlio d’arte. Figlio di quell’Oscar che, qualche anno fa, ha preso in mani le redini di una delle aziende storiche, in palese difficoltà, per ridare quel lustro e quella dignità che gli spettano di diritto. Con una tonalità di voce emozionata ed eccitata, prova a raccontarci la storia di un vino che è di quasi trent’anni più vecchio di lui. Ma l’emozione più grande è stata di venire presentato dopo gente come Dante Scaglione, Mauro Mascarello e Paolo Fenocchio. “Meglio che stia fermo, altrimenti corro il rischio di spaccare tutti i bicchieri” è stato il suo esordio. Naturale e spontaneo, è stato l’applauso scaturito dalla platea, perché la gente sapeva del compito non facile. Ma la cosa ancora più curiosa è che, un vino di cinquant’anni di vita, si è presentato nel bicchiere allo stesso modo. Il suo approccio è stato timido, riservato, involuto. Chiuso su se stesso, ma con la consapevolezza di non essere nato in un millesimo a caso. La sua cosciente maturità, è cresciuta pari passo con l’ossigenazione. Cerchi di immedesimarti nel bicchiere, perché la grandezza di questo vino, non viene raccontata attraverso i tratti austeri e potenti del Monfortino o del Ca’ d’Morissio e neanche con i classicismi di Pio Cesare, ma la si deve cercare attraverso le piccole sfumature. Isolarti dal resto del mondo e recepirla attraverso i sentori di ciliegia sotto spirito, i chiodi di garofano, il tabacco, il balsamico… e poi… la bocca più sfumata, umile, coraggiosa e tenace di un tannino mai domo, hanno messo in maniera dignitosa, i titoli di coda ad una grande degustazione. E quando riapri gli occhi e ritorni a prendere contatto con il mondo, ecco che si rendono orecchiabili le ultime parole di Andrea: “vi aspettiamo in azienda”. Proprio quell’azienda che, attraverso le botti grandi, i lucernari pieni di millesimi antichi, i suoi muri ammuffiti, respiri la vera aria di Langa. Dal 1761.
In foto, i protagonisti “in carne e ossa” della degustazione. Da sinistra a destra incontriamo: Paolo Fenocchio direttore tecnico della Pio Cesare, Mauro Mascarello proprietario della Mascarello Giuseppe & Figlio, il giornalista Gian Luca Mazzella, Dante Scaglione enologo di casa Bruno Giacosa e Andrea Farinetti proprietario della Borgogno.
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